Una delle differenze più note tra l’astrologia degli antichi e quella che usiamo oggigiorno è senz’altro quella che riguarda il numero dei pianeti utilizzati per trarre informazioni, giudizi e previsioni. In passato erano noti soltanto sette “astri erranti”, ovvero i due luminari (Sole e Luna) più i cinque pianeti visibili a occhio nudo: Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno. Urano, Nettuno e Plutone invece furono avvistati, come sappiamo, soltanto in tempi recenti (1781, 1846 e 1930) grazie all’uso dei nuovi strumenti ottici senza i quali, a causa della debolezza della loro luminosità, sarebbero rimasti per sempre invisibili. Nelle righe che seguono affronteremo precisamente il tema della luce, argomento essenziale nell’astrologia tradizionale, e perciò ci immergeremo nella visione del cosmo tramandataci soprattutto dai nostri predecessori di età greca ed ellenistica.

Una visione d’insieme
In generale si sono sempre fronteggiate due visioni abbastanza differenti dell’astrologia, l’una di tipo più, per così dire, mistico/ermetico e l’altra di tipo naturalistico/scientifico. Questo fatto emerge chiaramente già con la figura di Tolomeo (II sec. d.C.), il cui Quadripartito, o Tetràbiblos, divenne presto base o punto di riferimento per i maggiori astrologi che giunsero dopo di lui. Il saggio alessandrino nella sua opera ci presenta l’astrologia degli antichi, i suoi predecessori babilonesi ed egizi, rielaborandola però in una forma nuova, razionale, inserita fondamentalmente nel contesto della filosofia naturale e dell’immagine del cosmo aristotelica.
In questa visione il cielo è eterno ed incorruttibile, moventesi di un sempre identico e perpetuo movimento circolare. La Terra si trova, in questa rappresentazione del cosmo, al centro di una serie di sfere via via maggiori, ognuna delle quali è connessa ad uno dei pianeti antichi, gli astri erranti, circondate a loro volta dalla sfera delle stelle fisse e delle costellazioni.
Tali sfere sono invisibili all’occhio umano, fatte di etere, sostanza cristallina ed incorruttibile, ed in ognuna è incastonato uno dei sette astri, fino all’ultima in cui sono infisse insieme tutte le stelle inerranti. I corpi celesti sembrano quindi muoversi da soli nel vuoto, mentre in realtà sono trascinati dal movimento della sfera eterea in cui sono incorporati. Il moto principale e più evidente del cielo – la sua rotazione giornaliera che fa sorgere e tramontare il Sole e gli astri – è impresso a tutte le sfere minori da quella più esterna, la nona, il cosiddetto Primum mobile. A questo moto primario si vanno poi a sommare i movimenti specifici di ogni sfera planetaria.
Soltanto il centro di questo sistema, ovvero la zona racchiusa entro la sfera più piccola, quella della Luna, è soggetto alla legge del mutamento: nel mondo sub-lunare (il nostro, la Terra) tutte le cose hanno un inizio ed una fine, una generazione e una corruzione. Nel cielo vi è l’eternità, sulla terra il divenire. E tale divenire è suscitato proprio dall’eterno movimento dei cieli, il quale agisce modificando continuamente le qualità prime che sono alla base di tutto ciò che appartiene all’ambito terrestre, ovvero caldo, freddo, secco e umido. In qualche modo quindi il moto degli astri modifica l’atmosfera nelle sue componenti di Fuoco (caldo-secco), Aria (caldo-umido), Acqua (freddo-umido) e Terra (freddo-secco).
Il primo e più importante cambiamento nel mondo sub-lunare è dovuto all’influsso del Sole – sia attraverso il moto diurno (dovuto alla rotazione terrestre sul proprio asse) che genera l’alternarsi di giorno e notte, sia attraverso il suo movimento annuale lungo l’eclittica (moto della terra intorno al Sole), che dà origine alle quattro stagioni astronomiche. Poi viene l’influenza della Luna: l’aumentare e diminuire della sua luce ha nel ciclo mensile lo stesso effetto che ha il Sole nel ciclo annuale.
Questo il quadro “climatico” fondamentale, definito dall’intrecciarsi degli influssi luminosi dei due astri maggiori, i luminari. Tale struttura di base però viene anche alterata, seppur in maniera circoscritta, dai moti e dalle configurazioni dei cinque pianeti e delle stelle fisse.
«Cosa dunque potrebbe impedire colui che possiede un’esatta conoscenza dei moti di tutti gli astri e del Sole e della Luna […] di prevedere, per ogni tempo proposto, in virtù delle caratteristiche dei fenomeni osservati, lo stato particolare del clima, se sarà più caldo o più umido? Non potrebbe egli forse, allo stesso modo, comprendere, di un essere umano, la qualità generale della sua costituzione dallo stato del cielo omniabbracciante del momento […]?» (Tolomeo,Tetrabiblos, I, 2)
Questa potrebbe essere in sintesi l’immagine del cosmo sottesa all’astrologia tolemaica. La luce sembra qui rivestire una funzione fondamentale e perciò ancora oggi molti studiosi di astrologia antica si attengono all’utilizzo dei soli pianeti tradizionali, quelli cioè che emettono una luce percepibile all’occhio umano.
Cerchiamo ora di dare uno sguardo più da vicino alla cosiddetta “teoria delle luci” o “teoria dell’influsso luminoso”, che ricostruiremo soprattutto seguendo lo studio di G. Bezza (Commento al primo libro della Tetrabiblos di Claudio Tolemeo, ed. Nuovi Orizzonti, 1992), dal quale sono tratte tutte le citazioni utilizzate in questo articolo.

Il cielo omniabbracciante
Giuseppe Bezza, nel suo ricchissimo e dotto commento al testo tolemaico si sofferma su una parola che egli stesso nell’opera traduce solitamente con l’espressione di cielo omniabbracciante, ovvero il termine greco περιέχον:
«Con questo termine si vuole designare la regione che attornia la terra, l’aria che ci circonda, aer nos ambiens, l’aria di una data regione e pertanto il clima che ha una sua qualità, che muta ad ogni stagione, secondo le fasi delle stelle e le loro figure. Nondimeno l’accezione prima di περιέχον è “ciò che contiene, che comprende” […] ha quindi sia un’accezione fisica, in quanto misura dello spazio, di capacità (il tenere dentro di sé), sia un’accezione intellettiva: l’afferrare con la mente, il conoscere a fondo.» p.19
«…le rivoluzioni degli astri, sia quelli fissi, sia gli erranti producono nel cielo circondante – afferma Tolomeo – diverse condizioni di calore, di umidità, ecc. in virtù delle quali le cose terrene ricevono una corrispondente impressione.» p.20
Tolomeo descrive l’azione del Sole nei vari momenti del giorno e dell’anno come agente attraverso la sua emanazione luminosa: è questa la causa dei principali mutamenti climatici che esso produce; e lo stesso dicasi, in misura minore, per la Luna con le sue fasi crescenti e calanti. Ciò, aggiunge il commentatore, deve valere quindi ugualmente anche per i pianeti e le stelle. A conferma di ciò Bezza riporta anche l’opinione di san Tommaso “se è proprio del Sole distinguere il giorno dalla notte, gli anni e le quattro stagioni, la loro natura e qualità dipendono da altre luci. Se non vi fosse che il Sole, ogni anno la primavera e l’estate e le altre stagioni avrebbero la medesima proporzione di calore e di freddo e nondimeno vi è varietà in virtù di altre luci”. p.23
Bezza specifica anche che, in effetti, questo cielo omniabbracciante non è l’aria o l’atmosfera in quanto tale, ma piuttosto qualcosa di simile allo spazio o all’ambiente che contiene tutto, che è contemporaneamente anche la causa di ciò che succede in esso. Per rendere più chiaro il suo pensiero, attingendo all’opera di S.H. Nasr (Islamic Cosmological Doctrines, Londra 1978), il commentatore richiama anche il concetto di muhît, che nei filosofi ed astrologi arabi indica la nona sfera la quale, pur essendo vuota di stelle ed immagini, contiene e muove il cielo delle stelle fisse e trasmette il suo movimento giù attraverso le sfere planetarie fino ai quattro elementi che costituiscono il mondo sublunare. Questo principio che tutto muove è qui identificabile con l’anima universale: la sua “forza permeante è simile alla luce che ovunque penetra”.

L’influsso luminoso, fisica o metafisica?
Continuando ad appoggiarsi alla riflessione araba di matrice aristotelica, Bezza spiega come l’azione delle sfere celesti sul mondo sublunare non avvenga secondo una grossolana azione di tipo meccanicistico come immaginano molti oggi, bensì come l’anima agisce sul corpo.
La capacità di operare degli astri non risiede perciò in qualcosa che sia connesso alle loro caratteristiche fisiche, bensì sta nella loro intelligenza motrice, «in Aristotele, l’intelletto agente, “capace di divenire e di produrre ogni cosa, in quanto è un certo modo di essere, come la luce” (Arist. an. 430a15). E come la luce è causa efficiente della trasformazione dei colori in potenza in colori in atto, allo stesso modo agisce l’intelletto agente, di cui la luce appare una metafora, operando sulle forme specifiche degli elementi primi (fuoco, aria, acqua e terra)». p.25
Nel commento al testo vediamo un ripetuto alternarsi di momenti in cui è la luce concreta degli astri ad avere il ruolo di causa efficiente del mutamento dell’ambiente terrestre, ad altri in cui, su un piano più speculativo, la luce è nominata piuttosto come metafora per descrivere l’azione dell’anima del mondo sul mondo stesso.
Allo stesso modo, sembra di notare una sorta di ambiguità anche nel significato attribuito al concetto di cielo omniabbracciante che, se da un lato sembra doversi riferire a qualcosa di concreto e “atmosferico”, dall’altro è descritto agire attraverso una virtù di tipo formale (nell’accezione aristotelica), simile quindi a ciò che è l’anima per il corpo.
In definitiva sembra ragionevole intendere l’espressione cielo omniabbracciante come indicante quasi un ente intermedio tra le sfere celesti superiori e la nostra dimensione terrestre/sublunare: i movimenti combinati delle eteree sfere celesti operano producendo diverse condizioni di calore, umidità etc. prima in questa sorta di ambiente o spazio sottile che ci contiene, il quale a sua volta trasmette queste impressioni a tutti i corpi semplici e composti in esso giacenti.
Con una piccola licenza potremmo paragonare questo modello a ciò che molti esoteristi descrivono parlando di una sfera spirituale dove risiedono le vere cause (che qui corrisponde al livello dell’anima del mondo), alla quale sono sottoposte gerarchicamente la dimensione astrale (le sfere degli astri appunto), quella eterica o delle forze formatrici (il cielo omniabbracciante), e quella fisica (la terra con la sua atmosfera).
Ad ogni modo, leggendo di seguito il testo di Tolomeo e poi il commento di G. Bezza, colpisce la differenza di spessore filosofico che vi è tra i due, al punto che potremmo anche essere indotti a pensare che la teoria delle luci sia soprattutto frutto di una speculazione ed elaborazione successiva, non necessariamente perciò già sottintesa nel Quadripartito.

L’azione della luce e i mutamenti nel mondo
«…la forza di cui parla Tolemeo che penetra nel cielo omniabbracciante proviene dalla luce o è la luce medesima: “questa forza permeante è simile alla luce che penetra ovunque”. La luce che tutto avvolge, che, come dice Giamblico, contiene tutto ciò che illumina, luce non separabile, continuo luminoso che spinge il cielo e le sfere a compiere le proprie rivoluzioni.» (myst. 1,9). p.28-29
È interessante anche il modo in cui si dice la luce operi sulle cose, ovvero come si esplichi la sua azione causale. Bezza ripropone la conosciuta metafora secondo cui il cielo agisce sulla terra come fa il magnete con il ferro, spiegando però che ciò non ha nulla a che vedere con qualche presunta influenza occulta degli astri, perché si tratta piuttosto di un tendere della creatura verso il proprio creatore. Il ferro si muove verso il magnete perché quest’ultimo è in qualche modo madre del ferro, è l’oggetto del suo amore/desiderio. In modo simile è il desiderio/amore per Dio che genera il movimento dell’anima universale, e ciò corrisponde al moto del primum mobile, la sfera celeste più esterna, che poi si trasmette a tutte le sfere inferiori.
Questa è l’azione della luce, ed è infatti una proprietà dell’etere, il quinto elemento di cui è composto il cielo. L’etere per i filosofi naturali dell’antichità ha una natura attiva, è dotato cioè di potere causale rispetto ai quattro elementi costituenti il mondo sublunare, che sono invece passivi. La stessa etimologia del termine αἰϑήρ viene fatta risalire dagli antichi alle idee di un perpetuo correre e del risplendere o ardere, caratteristiche sia delle sfere celesti che della luce.
Gli astri luminosi perciò suscitano negli elementi terrestri dei mutamenti, che non sono altro che un tendere di questi verso quelli, e la differente caratteristica luminosa degli astri implica evidentemente delle differenti modificazioni nei corpi che abitano il mondo sublunare. In particolare l’intensità luminosa genera soprattutto il calore, mentre la sua estensione/ampiezza suscita l’umidità: queste sono precisamente le azioni predominanti dei due luminari, rispettivamente il Sole (calore) e la Luna (umidità). Con ciò abbiamo la prima qualità attiva e la prima qualità passiva. Il freddo e il secco, ovvero la seconda qualità attiva e la seconda passiva, sono invece definibili semplicemente come un difetto di caldo e umido.

Visibilità ed invisibilità
Naturalmente la teoria dell’influsso luminoso apre una serie di riflessioni sul concetto di visibilità e di efficacia dei corpi celesti quanto alla loro azione sulla terra.
Si può tentare una prima considerazione, ovvero che un astro può essere invisibile per diversi motivi; fondamentalmente o perché la sua vista è impedita da circostanze di natura fisico-prospettica, ossia da un ostacolo di natura eterogenea: come quando risulta invisibile essendo calato sotto la linea dell’orizzonte o perché nascosto da una nuvola; oppure perché la sua luminosità è insufficiente a stagliarsi in maniera distinta sullo sfondo dell’ambiente che lo attornia: qui è la luce stessa che fa da ostacolo.
Nel primo caso l’occhio dell’osservatore si può dire non abbia alcun ruolo nel fenomeno: per quanto acuta possa essere la capacità visiva del soggetto, vi è un elemento estraneo che si interpone tra la fonte della luce e il suo organo di senso. Potremmo parlare qui anche di invisibilità accidentale, poiché anche se l’astro in questione in un certo momento non risulta visibile da un preciso punto di osservazione, ciò non toglie che da un luogo anche solo leggermente diverso potrebbe essere invece assolutamente visibile. Inoltre appare fondamentale distinguere in questa situazione quando l’ostacolo alla vista abbia una natura intrinseca alla geometria fondamentale della terra (la linea teorica dell’orizzonte) da quello la cui natura sia puramente estrinseca o aleatoria (il grattacielo o la nuvola).
Nella seconda circostanza invece potremmo parlare di invisibilità essenziale o strutturale, perché l’ostacolo alla visione in questo caso non può essere aggirato così facilmente. Qui la facoltà percettiva del soggetto ha la sua importanza, perché l’occhio di individui o specie diverse potrebbe essere in grado di apprezzare differenze di luminosità più o meno marcate. I pianeti oltre Saturno, oppure le stelle oltre la sesta magnitudine, divengono perfettamente visibili con un cannocchiale dotato di lenti adeguate ad esempio, ovvero ad un occhio più potente.
Esiste anche una terza situazione di invisibilità, che ha una natura intermedia tra i due esempi già citati. È il caso dei pianeti e di una serie di stelle nel periodo compreso tra il momento del loro Tramonto eliaco e quello della successiva Levata. La scomparsa dell’astro in questi casi è dovuta alla vicinanza del Sole, che con l’intensità della sua luce lo rende indistinguibile, perciò fin qui il fenomeno sembrerebbe rientrare nel concetto di invisibilità strutturale connesso alla capacità percettiva del soggetto. Sappiamo però che l’invisibilità dovuta alla fase eliaca non è un fenomeno universale, ma dipende spesso dall’orizzonte locale. Un pianeta invisibile per una certa latitudine geografica, potrebbe essere ancora o già visibile ad una latitudine diversa, e questa evenienza è tanto più certa quanto il corpo celeste in questione si discosta dall’apparente orbita solare, l’eclittica.
Ora potremmo chiederci: quanto agli effetti, e perciò al significato astrologico, questi tre tipi di invisibilità in cosa differiscono? Nel caso dell’invisibilità accidentale, e perciò fondamentalmente quando l’astro è sotto l’orizzonte la sua azione certamente non cessa, viene eventualmente in qualche misura solo modulata e alterata.
Diverso il caso dell’invisibilità come fase eliaca: in questa condizione la tradizione astrologica ha riconosciuto in genere una significativa debilità, ovvero una debolezza in quanto all’espressione della natura propria di un astro. Molto note sono le metafore utilizzate per descrivere la condizione di un pianeta reso invisibile dalla vicinanza del Sole, che lo vedono di volta in volta come un malato, un condannato a morte etc. Le variazioni luminose degli astri erranti sono un fenomeno sul quale l’attenzione degli astrologi dell’antichità si è sempre molto soffermata – le fasi eliache di pianeti e stelle erano uno degli elementi fondamentali della più antica astrologia babilonese, e ancor di più lo erano le eclissi, che non sono altro che variazioni anomale nella luce dei due astri più importanti e vitali, il Sole e la Luna.

Inafferrabilità della luce
Una stella che ieri brillava ma che oggi non si vede più è un fatto rilevante, un mutamento del cielo che non può non avere un qualche importante effetto o significato. Ma che pensare di corpi celesti come i pianeti oltre Saturno, per i quali l’invisibilità ad occhio nudo è la condizione normale? È corretto applicare anche ai casi di invisibilità essenziale/strutturale il concetto di debilità connesso al venir meno alla vista di un astro normalmente visibile? Invisibilità in questo caso significa una costante estrema debolezza dell’astro, o al contrario mancano qui i presupposti per utilizzare quest’idea di debilità?
Se riteniamo che il solo principio agente degli astri sia la loro luce visibile, ovvero che la luce percepibile sia la causa effettiva dei cambiamenti che si producono sulla Terra, allora tutti i corpi celesti troppo poco luminosi per esser percepiti ad occhio nudo devono esser considerati senza dubbio inefficaci o trascurabili.
Il fenomeno della luce però è di una natura assai singolare poiché sembra correre costantemente sul confine tra fisica e metafisica. Anche dal punto di vista scientifico se vogliamo si ripresenta oggi una sorta di ambiguità ed inafferrabilità della luce, perché sappiamo che gli viene attribuito uno strano doppio comportamento, come particella e come onda. Per queste ragioni, soprattutto se parliamo del pensiero di autori antichi, una filosofia naturale che si fondi sulla luce come agente fondamentale può rimanere parzialmente indecifrabile volendo tradurla nei termini della nostra visione prosaica del mondo, fatta di pesi e misure. Dove finisce il significato di effetto fisico-materiale connesso all’emanazione luminosa, e dove comincia la metafora divina o l’azione metafisica? Detto in altri termini: è lecito interpretare l’influsso luminoso di cui parlano filosofi della natura e astrologi del passato alla stregua di un fenomeno puramente naturalistico?
Potremmo anche discutere sul ruolo che l’occhio umano viene ad assumere nella teoria delle luci se la si vuole interpretare in senso puramente fisico: è verosimile che uno degli organi di senso di una delle tante specie viventi sulla terra, con le sue specifiche capacità percettive, faccia da pietra di paragone per stabilire l’efficacia che un corpo celeste può avere nel produrre mutamenti nel mondo sublunare?
Queste sono naturalmente solo due semplici considerazioni tra le molte possibili, che rivelano forse però quanto sia arduo, se non addirittura insensato, pretendere di tradurre nel nostro attuale linguaggio e modo di vedere le cose concetti e teorie radicate in un’esperienza del mondo ormai trascorsa e difficilmente recuperabile. Nonostante ciò (e forse proprio per questo motivo) rimangono intatti tutto il fascino e la maestosità di formulazioni teoriche come quella che abbiamo brevemente esaminato in questo articolo, ed anche l’impressione che dietro ad esse lampeggi una verità più vera, un’inafferrabile luce arcaica, ancor più genuina di quella che ci ha condotto alle scoperte scientifiche e alle incredibili realizzazioni tecnologiche del mondo di oggi.